De Tommasi, l’uomo dietro il camice da medico
Da circa un anno e mezzo è in prima linea insieme agli altri colleghi per aiutare i pazienti colpiti dal Covid, il sindaco lo ha investito dell’incarico di responsabile sanitario del COC. Francesco De Tommasi ci racconta la sua esperienza di medico in trincea all’indomani dell’allentamento delle misure anti pandemia.
Dott. De Tommasi le vaccinazioni in corso hanno prodotto un allentamento delle restrizioni Covid. Possiamo ritenerci fuori pericolo?
Sicurezza? All’inizio di Marzo 2020 chi avrebbe potuto prevedere quanto stava per accadere? La pandemia ci sta portando a coniugare la speranza con la prudenza, l’attenzione con l’impegno e credo che questo insegnamento sia uno degli aspetti positivi che, fortunatamente, accompagnano anche le situazioni più difficili. I vaccini sono certamente il punto di svolta: al conforto della diminuzione dei numeri di contagiati, ricoverati e purtroppo deceduti, si accompagna la sensazione di riconquistata (quasi) normalità che ciascuno di noi legge sul volto del vicino. Godiamoci quindi l’attimo di respiro ma restiamo cauti: la bestia non è sconfitta. Consideriamo che noi siamo solo un minuscolo tassello di quel mosaico che è il pianeta e che la malattia sarà sconfitta solo quando ogni Paese, ogni comunità avrà avuto accesso alla vaccinazione. Fin quando ci sarà una zona geografica dove il virus circola, si diffonde e muta (!) non potremo dire di averla avuta vinta.
Per circa un anno e mezzo i medici sono stati in prima linea per fronteggiare la pandemia. Qual è stata la sua personale esperienza sino ad oggi?
L’impegno di tantissimi se non di tutti ha portato alla recente proposta di Nobel per la Pace al corpo medico italiano e lascia interdetti la frequenza con cui è possibile trovare dicerie e deformate informazioni sull’operato dei medici in diversi canali di informazione. La mia esperienza è stata per così dire “particolare” perché ho dovuto unire al lavoro quotidiano di medico di medicina generale quello di responsabile sanitario all’interno del COC. Essere investito di quella responsabilità, devo confessare, se da una parte mi ha seriamente preoccupato, dall’altra è stata una forte motivazione a provare a “stare sempre sul pezzo”, cercando di aggiornarmi continuamente e mantenendo la massima attenzione su quanto la situazione richiedeva. Se sono riuscito a ottenere qualche risultato positivo lo devo alla stretta collaborazione con il COC stesso e con gli altri colleghi.
I casi a Noci di Covid si sono mantenuti piuttosto bassi anche nei periodi di maggiore picco di contagio. Durante la sua esperienza vi è stato un caso che l’ha colpita particolarmente? Perché?
Fortunatamente Noci è sempre stata tra le comunità meno drammaticamente colpite; non vorrei parlare di un caso specifico: la sofferenza è uguale in ogni contesto, mi piace invece raccontarvi che dietro a ogni telefonata, a ogni comunicazione di positività al tampone ho sempre sentito la preoccupazione affettuosa del positivo nei confronti dei conviventi, la compattezza emotiva della famiglia a supporto del congiunto malato. Voglio credere che questa sia stata una lezione alla collettività per riconsiderare valori e priorità.
Dal punto di vista umano come sta vivendo questa esperienza? C’è qualcuno che la supporta e la sprona a proseguire su questa strada?
Anche con stizza! Permettetemi una chiosa: diversi mi chiedono se anch’io, come altri colleghi, stressati da tutte le incombenze che ci sono cadute addosso in quest’ultimo anno, deciderò di andare prematuramente in pensione; la risposta è “assolutamente no! Non prima di 5 anni e magari anche oltre”, perché la rabbia nel vedere che tante cose non vanno nella nostra sanità e che invece potrebbero essere migliorate a beneficio di tutti, mi carica di energie e intendo spenderle perseguendo questo obiettivo fino a quando ne avrò la possibilità. Innegabile poi il sostegno della famiglia, prima di tutto, dei colleghi e di quelli che la pandemia mi ha portato a considerare amici.